E’ in corso il confronto con gli editori per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro giornalistico. Una trattativa difficile. Nata con il refrain di un tema ricorrente, quello della flessibilità, a cui le parti attribuiscono significati opposti. Il sospetto più che fondato è che per la FIEG flessibilità sia sinonimo di licenziabilità e di ulteriore precarizzazione del lavoro, fino al tentativo di minare la solidità dell’Art.1 del CNLG. Mentre per la FNSI il termine è il grimaldello possibile per ampliare la platea dei diritti, per riportare una quota del lavoro precario ed autonomo nell’area del lavoro dipendente, senza mettere in discussione il lavoro a tempo determinato.
Questa è la premessa della trattativa, da cui già si comprende la difficoltà dell’interlocuzione tra i soggetti e da cui discende, nei fatti, la possibilità di poter raggiungere o meno un accordo. E questa paradossalmente, nel quadro di crisi che investe il nostro settore, è la notizia migliore. Si è almeno aperto un “tavolo” contrattuale per coloro che da molti colleghi sono considerati privilegiati perchè hanno un rapporto di lavoro subordinato. Come se nel corso degli ultimi anni, costantemente, tutto il sistema dell’editoria e radiotelevisivo, pubblico e privato, non fosse stato interessato da processi di riorganizzazione e ristrutturazione che hanno buttato fuori dal mercato del lavoro migliaia di colleghi e di colleghe. Con buona pace della sicurezza occupazionale, del loro futuro e delle casse degli istituti di categoria, INPGI in testa.
Intanto la crisi complessiva e strutturale dell’informazione non fa che accrescere la platea dei giornalisti autonomi e precari, sottopagati e sfruttati, a cui tardivamente, per la difficoltà oggettiva di tenere il passo alla velocità del mutamento, si è cercato di porre rimedio con una legge sull’equo compenso di non facile attuazione, che rappresenta certamente un passo importante, ma non la panacea di tutti i mali.
Secondo i dati dell’ultimo Rapporto di “Lsdi” sulla professione giornalistica in Italia (“Il paese dei giornalisti” è il titolo) infatti sei giornalisti attivi su 10 fanno lavoro autonomo (nel 2000 erano la metà), con un reddito 5 volte inferiore rispetto alla media annua delle retribuzioni dei giornalisti contrattualizzati (che nel 2012 era pari a 62.459 euro). Quello dei Co.co.co è ancora più basso: sette volte minore. Eppure in tredici anni la popolazione giornalistica italiana, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, è più che raddoppiata, passando da 23.387 a 47.227 giornalisti attivi (con posizione Inpgi).
In Italia c’è un giornalista iscritto all’Ordine ogni 526 abitanti, contro 1 su 1.778 in Francia e 1 su 5.333 negli Stati Uniti. Sono dati che devono farci riflettere. Che ci dicono che il futuro della categoria, in un quadro saturo per quanto riguarda l’occupazione, dipende anche da una diversa, più selettiva e qualificata modalità di accesso alla professione e che occorre portare velocemente a compimento una efficace riforma dell’ODG. Intanto il Governo continua a tagliare i fondi all’editoria e le istituzioni, a tutti i livelli, non rispondono alla sollecitazione di individuare misure, anche locali, a sostegno del settore dell’informazione e del lavoro giornalistico in tutte le sue declinazioni.
L’Asu in questo quadro di crisi galoppante ha cercato di rispondere, non senza difficoltà, alle tante e diverse richieste di aiuto dei colleghi. Continueremo a farlo con lo stesso impegno anche per il futuro, sperando in tempi migliori. E siccome non fa male anche noi ci affidiamo alla divina provvidenza come gli undici precari e free lance che hanno inviato una lettera-appello a Papa Francesco per tutelare la dignità del lavoro. Chissà se almeno lassù qualcuno ci presterà attenzione perché, come hanno scritto i colleghi: «difendere la dignità della professione giornalistica, in tutte le forme in cui viene esercitata, è difendere anche la dignità e la libertà dell’informazione in questo Paese» e – aggiungerei – la democrazia.